A proposito del maschile e femminile nella lingua italiana e la necessità di distinguersi, ritorno con piacere sull’argomento e condivido volentieri l’articolo che mi è stato inviato da Daniela D’Elia (https://www.ildubbio.news/2020/09/03/si-dice-avvocata-o-avvocato-il-dibattito-e-aperto-ma-per-la-sociolibguista-non-ci-sono-dubbi-si-dice-avvocata/?fbclid=IwAR0pfrjJEqSUSBTsVDG9LHLlMtAIoy3G79h8quExVXV7v7p7SEQp9-EayUM) relativo alla questione dei termini che individuano ruoli e lavori interpretabili al femminile (sindaca, ministra, assessora, avvocata, ecc…). Questione linguistica (e anche sociale) antica, ma sicuramente saltata alla ribalta negli ultimissimi anni e che ha avuto sviluppi quantomeno singolari rispetto all’evoluzione che ogni lingua “viva” registra nel tempo. Infatti, debbo constatare che:
TRE PUNTI ESSENZIALI
-
un (una?) Presidente della camera dei Deputati (Boldrini) invita all’utilizzo dei termini al femminile e tutti i giornalisti le fanno immediatamente coro adeguandosi simultaneamente, come fossimo in un regime dominato dal pensiero unico. Ciò che in passato gli accademici avevano pur suggerito, sino ad allora non aveva interessato le grandi masse;
-
l’attenzione puntuale di costoro (i giornalisti) è sorprendente, sapendo di avere la responsabilità di essere testimoni del tempo e di avere il potere diffondere nuove forme linguistiche, soprattutto riguardo a termini che si riferiscono a ruoli politici e che, peraltro, non hanno neppure un trascorso memorabile particolarmente lungo nella storia dell’umanità;
-
esiste una discriminazione sessista rispetto a parole da sempre pronunciate al femminile che indicano professioni esercitate (anche) da uomini. Io stesso sono un commercialista e non un “commercialisto”; eppure, come tante professioni, non mi sembra che all’origine sia stata prevalentemente esercitata da donne. È vero, “commercialista” è parola maschile e anche femminile (quindi correttamente il commercialista e la commercialista); perciò, lo dico provocatoriamente, quale sarebbe l’errore nel chiamare lo avvocato e la avvocato? Peraltro si direbbe sempre “l’avvocato”, con buona pace per tutti; invece si preme per sostituire la vocale finale. E che dire de il medico e la medica? Le dottoresse meritano meno attenzione delle avvocate?
NON SONO UN LINGUISTA
Ma procedo con ordine. Innanzitutto non sono un linguista e pertanto so di non reggere il confronto culturale con chi ha più confidenza, per motivi professionali e di studio, su questi argomenti. Dopodiché leggo l’articolo e mi chiedo:
-
Se volessimo mettere in discussione “per decreto” (politico o accademico) la storia e l’evoluzione umana, e quindi anche la lingua di un popolo, non avremmo più regole certe e saremmo pilotati pure per il lessico da scelte calate dall’alto. Non mi sembra un passo avanti per l’umanità.
-
Anche la studiosa afferma che la lingua è frutto di consuetudini consolidate “dal basso” e non potrebbe che essere così, il che corrisponde ad una forma altissima di democrazia.
-
Mi inchino a tutti i riferimenti storici che giustificano l’uso odierno al femminile (e non esistono casi da riportare al maschile?) di determinati sostantivi, fino ad oggi desueti, ma quanti sono i termini che, in voga in certe epoche, si sono persi nella lingua parlata? Termini (sostantivi, aggettivi, avverbi, verbi,…) che vanno ben oltre i riferimenti alle attività di uomini e donne. E in particolare questi ultimi si sono persi perché tutti gli uomini si sono messi improvvisamente d’accordo al fine di rimarcare la loro superiorità nei confronti del mondo femminile?
-
Vogliamo attribuire ai contemporanei la “colpa” dei nostri progenitori che indicavano al maschile molte professioni solo perché erano esercitate da uomini e, quindi, mandarli in confusione da un giorno all’altro nell’applicazione di nuove regole linguistiche, peraltro infide? La stessa studiosa cita i termini giudicessa o giudichessa, d’altra parte corrispondenti ad un caso (pare) isolato del XIV secolo; ovvero, reputa corrette entrambe le parole procuratrice e procuratora.
-
Ancora l’esperta, nel citare altri professionisti della lingua italiana, riporta come è consigliabile preferire, laddove la forma non sia particolarmente penetrata nell’uso le forme a suffisso zero: quelle in ‘- a’ e non in ‘- essa’. “La presidente”, ad esempio, invece di presidentessa. Sottolineo, “laddove la forma non sia particolarmente penetrata nell’uso”: insomma non costringete un mancino, per favore, a scrivere con la destra, solo perché così fanno quasi tutti! D’altronde, lei prosegue: I femminili in “- essa” sono nati in un periodo storico in cui questo suffisso veniva spesso usato in modo canzonatorio… La forma avvocatessa – osservano i linguisti – non è mai entrato troppo nell’uso. Orbene, se si abbandonano, giustamente, le forme “canzonatorie” o non “entrate troppo nell’uso” mi chiedo perché non ricordare a tutti noi, invece, con l’uso del maschile, la storia vera del rapporto maschio-femmina; che ci sia di insegnamento e non cancellata dalle menti. Questo sì che significa onestà intellettuale.
UN “TORTO STORICO”?
Nel rifarci all’impiego delle parole affondando nella storia, rischiamo tutti di fare pessime figure e dovremmo ritornare sui banchi perché per eliminare un “torto storico” si rischia di rimescolare troppe regole e consuetudini. A me hanno insegnato che non basta un documento, peraltro vero ed originale, a fare la storia, semplicemente perché esso è scritto da esseri umani simili a noi; singoli incaricati che mai avrebbero immaginato che da soli (o in pochi) potevano nei secoli a venire rappresentare motivo di cruccio linguistico.
Siccome mi ritengo una persona tollerante (e per favore, intendo essere tollerato!), so bene che la questione rimarrà aperta per molto tempo, come è naturale; pertanto, avrò modo di imparare cose che al momento mi sfuggono, pro e contro le rispettive tesi. E questo è il fascino della nostra evoluzione. È naturale che nei salotti intellettuali e tra gli studiosi si dibatta (anche pubblicamente) su tali questioni; e tali dibattiti scaturiscono dall’osservazione dell’uso popolare di una lingua, che si definisce pertanto “viva”. Ma non è da popolo civile essere bacchettati da un politico (una “politica”?) e incitati a cambiar rotta, come si fa con l’alunno discolo e svogliato. Crearsi proseliti sbandierando l’uguaglianza tra i sessi è comportamento facile ma mediocre; e anche ingannevole. La politica deve e può fare ben altro per la tutela delle uguaglianze.
CONCLUSIONI
Concludo affermando che non bisogna vergognarsi del passato e non bisogna scontare oggi “colpe” che non appartengono ai contemporanei. Maschile e femminile nella lingua italiana e la necessità di distinguersi: non si cancella un campo di concentramento, anzi lo si rende accessibile alle nuove generazioni a testimonianza degli orrori della guerra. Ecco, non vorrei che tutti noi possiamo confondere quello che oggi ci viene sottolineato come errore con il forte sospetto dell’orrore di imposizioni linguistiche studiate a tavolino… Mi sovviene un dubbio atroce: a quando l’abolizione della regola secondo cui, in presenza di maschile e femminile, prevale l’uso del primo genere?