PREMESSA
Cosa desidera un piccolo imprenditore?
Alzi la mano chi da piccolo non vedeva l’ora di diventare grande. Sogno legittimo di ogni bambino che, a ragione, dà per scontata la vita che gli si para innanzi, con tutte le sue possibilità. E quando nasce una nuova azienda si rigenera, quasi per incanto, il sogno del bambino. Ma per approfondire le diverse dinamiche in cui sono stato coinvolto e che, in definitiva, hanno poi caratterizzato gran parte del mio percorso professionale di consulente, mi è necessario procedere per gradi e partire dai miei esordi, onde distinguere i desideri di un fanciullo con quelli, pur legittimi, di un’organizzazione.
QUELLO CHE HO IMPARATO DALLA CONSULENZA
In tanti anni di consulenze, tra una PMI e un’altra, ho imparato davvero molto. Ma non ho approcciato la mia professione sempre allo stesso modo: da giovane spiegavo agli altri ciò che sapevo; viceversa, da persona matura mi sono posto soprattutto in ascolto dei sogni e delle difficoltà delle persone. Intendo dire che sono giunto a capire, ma solo dopo molti anni di lavoro, che il mio sapere valeva paradossalmente sempre meno, pur accumulandosi attraverso nuove esperienze, nel mentre il mio desiderio di mettermi nei panni altrui mi permetteva di condividere in contesti diversi il vissuto di tante realtà differenti, ma dalle connotazioni similari. E questo creava valore per i clienti.
Quello che mancava nel mio bagaglio professionale, in altre parole, lo attingevo comunque nel vissuto degli altri; ho quindi dato una forte spinta al mio sviluppo quando ho smesso di dispensare saggezza ed ho realizzato connessioni tra idee prodotte da persone che neppure si conoscevano tra loro. Quindi ne ho dedotto che, se volevo accelerare la mia crescita professionale e contribuire a generare valore per tanti piccoli imprenditori, avevo un’opportunità unica frequentando i miei clienti e i loro collaboratori, a casa loro, nel loro contesto operativo. Perché solo così facendo si sollevano sempre nuovi interrogativi e si è spinti a cercare risposte adeguate.
In effetti, si impara avendo voglia di porsi tante domande, concedendosi il beneficio del dubbio, osservando gli altri, le situazioni, i successi e gli insuccessi altrui (e personali), le storie,… Così facendo, sono così arrivato alla conclusione che mi pagano per imparare!
IL PICCOLO IMPRENDITORE: PERCHE’ SI RESTA PICCOLI
In particolare, una domanda che rimbomba da tempo nella mia mente merita un approfondimento che intendo qui condividere con chi mi legge, perché lo considero il quesito dei quesiti. La domanda cruciale è: perché si resta piccoli? Proprio così: l’Italia è il Paese delle piccole imprese, della creatività individuale; e pur tuttavia, paradossalmente, ascoltando le tante persone intraprendenti e creative che avviano un proprio sogno lavorativo emerge sempre la voglia di crescere. Crescere, sì, ma fino a che punto, se alla fine la stragrande maggioranza delle imprese raggiunge una dimensione poco più che familiare e non arriva a superare la prima o, tutt’al più, la seconda generazione imprenditoriale? Nel 2016 a tal proposito scrissi anche un volume, intitolato «Perché le aziende non crescono …e le persone neppure» (Koinè edizioni); ma evidentemente non è bastato.
In realtà tutti, istintivamente, desideriamo crescere; è umano, ma non tutti riusciamo a gestire noi stessi e gli altri quando ci fiondiamo in un contesto più grande di quello che siamo abituati ad affrontare ogni giorno e che conosciamo bene.
La «legge di Peter», detto anche principio di incompetenza, ci ammonisce: «In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza». Se vale per tutti gli umani, ovviamente dovrà valere anche per gli imprenditori e le loro organizzazioni. Piccola, ne deduco, è quindi la dimensione che individua anche il limite oltre il quale la maggior parte di noi non è capace di gestire la realtà che ci appartiene.
Ma c’è una misura del concetto di piccolo? È il fatturato? Il numero dei dipendenti? La copertura geografica del business? Nulla di tutto ciò: il concetto di piccolo ha a che fare con attitudini, mentalità, atteggiamenti che, all’interno di un’organizzazione, l’imprenditore assieme ai suoi collaboratori vivono quotidianamente e danno per scontato, facendo parte delle abitudini individuali ma anche delle routine comportamentali organizzative, quindi collettive. E sappiamo bene che tali abitudini sono difficili da modificare, cementandosi nella cosiddetta zona di comfort che giustifica ogni resistenza al cambiamento.
In poche parole, spesso si desidera crescere, quindi cambiare, ma non si adotta nessun comportamento concreto nella direzione dell’evoluzione. Per tutti piccoli si nasce, ma per molti piccoli si diventa! E di fronte ad un tale paradosso è lecito chiedersi: al di là del desiderio, perché si vuole – nei fatti – restare piccoli?
I QUATTRO ELEMENTI DELLA CRESCITA
Ho individuato quattro elementi che sono fattori fondamentali per la crescita e, correlati a ciascuno di essi, tutti gli aspetti che, al contrario, la frenano. Ciò che a tal proposito ho conseguentemente imparato è che non è sufficiente spiegare all’imprenditore e alla sua impresa che cosa aiuterà loro a crescere, ma bisogna affrontare a muso duro gli ostacoli, spesso psicologici, che bloccano ogni pur legittimo sogno evolutivo.
E a volte il sogno evolutivo svanito serve solo a confermare, agli occhi dell’imprenditore, le sue idee e le sue giustificazioni riguardo la personale prudenza verso il cambiamento. Insomma, ciò che ricerca una metà della nostra mente (e del nostro cuore) è soggiogato da quello che fa l’altra metà. La mente razionale domina sulla creatività e l’innovazione e il cuore colmo di paure e di dubbi sottomette l’entusiasmo.
Ed ecco, allora, i quattro elementi così tanto agognati, tuttavia spesso acriticamente, nel senso che si bramano al pari dei desideri di un bambino capriccioso che, appunto, pretende ma non si fa domande e non cerca risposte. Quattro elementi tutti contemporaneamente necessari, nessuno escluso, che andrebbero elaborati nella mente dell’imprenditore e che necessiterebbero del massimo coinvolgimento dei suoi collaboratori. E invece… si pretendono con la bacchetta magica e si definiscono più come sogni che come progetti. Quattro elementi sintetizzabili in quattro concetti che frullano nella testa del vertice aziendale, a volte a vuoto. Vediamoli.
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Risultati: il desiderio di più fatturati, più margini, sviluppo commerciale in specifici mercati,…
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Autonomia & Intraprendenza: la speranza che responsabilità e arguzia imprenditoriale coinvolgano ogni componente dell’organizzazione.
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Cambiamento: è richiesta a ciascuno una grande flessibilità sul piano tecnico, organizzativo e umano. Ma la bramosia del cambiamento è spesso solo operativa, quasi mai strategica e, quindi, esclude in primis proprio l’imprenditore.
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Risorse: l’attesa di maggiori mezzi, sia tecnici che finanziari, che sembrano non bastare mai.
Quindi il nostro piccolo imprenditore è portato a pensare che la strada per diventare grandi passi attraverso i risultati, l’autonomia e l’intraprendenza dei propri uomini. Ma anche il loro cambiamento, le maggiori risorse che il contesto può riversare all’interno dell’azienda. Ma ciò che è comprensibilmente vero si può trasformare in un’illusione? Ahimè sì, se la direzione d’impresa non supera, innanzitutto, quegli aspetti che frenano per l’appunto ciascuno degli elementi appena illustrati. Mi spiego meglio, punto per punto.
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Si desiderano risultati maggiori ma non ci si attiva per impiantare un adeguato controllo di gestione. E non si coinvolgono emotivamente i collaboratori nel credere in un grande progetto (innanzitutto domandiamoci: c’è un grande progetto?).
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Si desidera una maggiore autonomia e intraprendenza da parte dei dipendenti, ma poi si scopre che manca un autentico processo di delega di responsabilità. E il processo decisionale non passa mai, ad esempio, attraverso una riunione periodica, come stile di lavoro e di partecipazione.
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Si pretende il cambiamento da parte degli operativi, ma la direzione è decisamente restìa a cambiare per prima. E le abitudini incatenano innanzitutto il vertice dell’azienda prima della base.
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Si è alla costante ricerca di risorse di qualsiasi genere, innanzitutto finanziarie, ma poi ci si dimentica di ottimizzare le inefficienze interne ad ogni livello. In primis il sovraccarico di lavoro direzionale, che nell’alimentarsi di problemi quotidiani impedisce di dedicare tempo ed energie alla visione e alla strategia.
CONCLUSIONI
Adesso è più chiaro perché si chiama «piccola» impresa? «Piccola» è la dimensione che quell’imprenditore sa meglio gestire. E a lui dico senza mezzi termini di riporre i sogni e di cercare di comprendere cosa ha reso grandi altre realtà economiche, quali priorità hanno perseguito davvero. Tanto lo so che per ogni sogno finito nel cassetto avremo una giustificazione adeguata.
Amen.
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